Il 16 febbraio 1926, John Herbert Watson, dottore in medicina, meglio noto a milioni di persone come il 'dottor Watson' dei racconti di Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle, morì per le lesioni riportate in una caduta nella sua casa nei pressi di Lyndhurst, nell'Hampshire. Aveva settantatre anni. Quando venne letto il suo testamento, si scoprì che in un codicillo aveva lasciato istruzioni affinché una cassa contenente diversi documenti venisse affidata in deposito alla sua banca per un periodo non inferiore a cinquant'anni, al termine dei quali la cassa avrebbe dovuto essere aperta e il suo contenuto reso pubblico. Ma perché Watson non vuole che il manoscritto contenuto nella cassa, che narra l'ultima avventura di Sherlock Holmes, non sia pubblicato fino al 1976? Londra, molti anni prima, nel 1888, era stata scossa dalla famosa serie di omicidi di prostitute il cui autore, soprannominato Jack lo Squartatore, rimase sempre sconosciuto. Watson racconta che nelle indagini, in aiuto alla polizia che non riusciva a sciogliere l'enigma, fu chiamato Sherlock Holmes... Qual è dunque il mistero che Watson voleva svelato solo nel 1976 e, soprattutto, chi era Jack lo Squartatore?
La vicenda inizia con l’invito del solito ispettore Lestrade ad assistere la polizia nell’indagine per gli omicidi seriali compiuti da Jack lo Squartatore. Sorpreso nel bel mezzo di una delle sue crisi di noia esistenziale che soltanto la cocaina può alleviare, Holmes accetta la sfida con entusiasmo, riconoscendo in Jack un fuoriclasse del crimine, malvagio ma geniale: in un certo senso un suo pari. Andando avanti con la trama, infatti, ben presto Holmes ritiene che dietro questi omicidi ci sia in realtà la mente geniale di Moriarty. La partita fra il criminale e il detective si snoda nei vicoli di Whitechapel, seguendo fedelmente tutto quanto la polizia appurò sui movimenti e sugli eventuali moventi dello Squartatore. Michael Dibdin incastra con grande abilità realtà e finzione, riuscendo anche a collegare casi del Canone, fino a condurre Holmes e Watson là dove tutto, secondo l’intenzione originale di Conan Doyle, avrebbe dovuto avere fine: alle cascate di Reichenbach. Qui Doyle, semplicemente ACD, è l’agente letterario di Watson, colui che “ricama” un po’ sui resoconti di Watson per renderli adatti a una pubblicazione. Fino a qui siamo di fronte a un romanzo decisamente ben scritto, ben documentato, arricchito da piccole chicche come questa che lo fanno apprezzare ulteriormente, ma a un certo punto cambia totalmente la prospettiva, e assistiamo a uno sdoppiamento della personalità da parte di Holmes: è lui Moriarty, è lui lo Squartatore!
Il colpo di scena si rivela davvero un boccone amaro da digerire, e fino all’ultima pagina si spera che non sia vero niente, ma Dibdin non mostra pietà e arriva a far suicidare Holmes, che si getta nelle cascate di Reichenbach durante un momento di lucidità, per non far del male a Watson.
Perché dico che Dibdin non mostra pietà? Perché non ho potuto fare a meno di notare alcune forzature, atte a inchiodare Holmes a una colpevolezza e a un finale tragico.
Innanzitutto mette Watson nelle condizioni di assistere all’omicidio di Mary Kelly (e con una pistola in tasca): perché Watson non irrompe nella stanza in cui vede Holmes all’opera? Il vero Watson l’avrebbe fatto…
Perché Holmes cerca in tutti i modi di sbarazzarsi di Watson quella notte? Dunque agisce consapevolmente, non in seguito a uno sdoppiamento della personalità, o a seguito di assunzioni di cocaina... Eppure il finale sembra in contrasto con questa tesi: egli crede davvero di avere davanti Moriarty!
Inoltre: l’autore mette in bocca a Watson che Holmes avrebbe potuto dissezionare i cadaveri alla maniera di un chirurgo, ma ciò è palesemente inesatto… Sherlock Holmes non ha mai avuto le nozioni (e soprattutto la pratica) di un chirurgo, e percuotere i cadaveri con un bastone non è certo la stessa cosa!
Di tutto questo, nonché l’assurda idea che un detective privato possa addirittura decidere i turni di pattugliamento dei poliziotti di Scotland Yard (!), l’autore si è servito per rendere Holmes un cocainomane con gravi disturbi della personalità, e quindi l’autore materiale di orribili delitti. Forse come idea di base può essere geniale (anche se non condivisibile), ma siamo molto lontani dalla Soluzione sette per cento e il risultato è solo indigesto, “eretico” per alcuni. Avrebbe potuto tirare fuori dal cilindro una soluzione nelle ultime pagine, scagionando Holmes e mettendo in campo Moriarty, ribaltando ulteriormente la prospettiva nel finale, e allora sì che il risultato sarebbe stato geniale e apprezzabile da tutti i fan di Sherlock Holmes, ma così non mi sento di poterlo consigliare a un purista per cui Holmes è non un eroe, ma comunque il “buono”.
Scritto nel 1978, è stato stampato in Italia per la prima volta nel 1991 (Libreria del Giallo) col titolo L’ultimo caso di Sherlock Holmes, mentre l’ultima ristampa ha per titolo L’ultima avventura di Sherlock Holmes (Passigli Editore).
La vicenda inizia con l’invito del solito ispettore Lestrade ad assistere la polizia nell’indagine per gli omicidi seriali compiuti da Jack lo Squartatore. Sorpreso nel bel mezzo di una delle sue crisi di noia esistenziale che soltanto la cocaina può alleviare, Holmes accetta la sfida con entusiasmo, riconoscendo in Jack un fuoriclasse del crimine, malvagio ma geniale: in un certo senso un suo pari. Andando avanti con la trama, infatti, ben presto Holmes ritiene che dietro questi omicidi ci sia in realtà la mente geniale di Moriarty. La partita fra il criminale e il detective si snoda nei vicoli di Whitechapel, seguendo fedelmente tutto quanto la polizia appurò sui movimenti e sugli eventuali moventi dello Squartatore. Michael Dibdin incastra con grande abilità realtà e finzione, riuscendo anche a collegare casi del Canone, fino a condurre Holmes e Watson là dove tutto, secondo l’intenzione originale di Conan Doyle, avrebbe dovuto avere fine: alle cascate di Reichenbach. Qui Doyle, semplicemente ACD, è l’agente letterario di Watson, colui che “ricama” un po’ sui resoconti di Watson per renderli adatti a una pubblicazione. Fino a qui siamo di fronte a un romanzo decisamente ben scritto, ben documentato, arricchito da piccole chicche come questa che lo fanno apprezzare ulteriormente, ma a un certo punto cambia totalmente la prospettiva, e assistiamo a uno sdoppiamento della personalità da parte di Holmes: è lui Moriarty, è lui lo Squartatore!
Il colpo di scena si rivela davvero un boccone amaro da digerire, e fino all’ultima pagina si spera che non sia vero niente, ma Dibdin non mostra pietà e arriva a far suicidare Holmes, che si getta nelle cascate di Reichenbach durante un momento di lucidità, per non far del male a Watson.
Perché dico che Dibdin non mostra pietà? Perché non ho potuto fare a meno di notare alcune forzature, atte a inchiodare Holmes a una colpevolezza e a un finale tragico.
Innanzitutto mette Watson nelle condizioni di assistere all’omicidio di Mary Kelly (e con una pistola in tasca): perché Watson non irrompe nella stanza in cui vede Holmes all’opera? Il vero Watson l’avrebbe fatto…
Perché Holmes cerca in tutti i modi di sbarazzarsi di Watson quella notte? Dunque agisce consapevolmente, non in seguito a uno sdoppiamento della personalità, o a seguito di assunzioni di cocaina... Eppure il finale sembra in contrasto con questa tesi: egli crede davvero di avere davanti Moriarty!
Inoltre: l’autore mette in bocca a Watson che Holmes avrebbe potuto dissezionare i cadaveri alla maniera di un chirurgo, ma ciò è palesemente inesatto… Sherlock Holmes non ha mai avuto le nozioni (e soprattutto la pratica) di un chirurgo, e percuotere i cadaveri con un bastone non è certo la stessa cosa!
Di tutto questo, nonché l’assurda idea che un detective privato possa addirittura decidere i turni di pattugliamento dei poliziotti di Scotland Yard (!), l’autore si è servito per rendere Holmes un cocainomane con gravi disturbi della personalità, e quindi l’autore materiale di orribili delitti. Forse come idea di base può essere geniale (anche se non condivisibile), ma siamo molto lontani dalla Soluzione sette per cento e il risultato è solo indigesto, “eretico” per alcuni. Avrebbe potuto tirare fuori dal cilindro una soluzione nelle ultime pagine, scagionando Holmes e mettendo in campo Moriarty, ribaltando ulteriormente la prospettiva nel finale, e allora sì che il risultato sarebbe stato geniale e apprezzabile da tutti i fan di Sherlock Holmes, ma così non mi sento di poterlo consigliare a un purista per cui Holmes è non un eroe, ma comunque il “buono”.
Scritto nel 1978, è stato stampato in Italia per la prima volta nel 1991 (Libreria del Giallo) col titolo L’ultimo caso di Sherlock Holmes, mentre l’ultima ristampa ha per titolo L’ultima avventura di Sherlock Holmes (Passigli Editore).
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